Gesù mio, fammi buono, donami la salute, pure a Mamma e a Papà.
Aiuta Papà quando va in ufficio in macchina e quando torna a casa.
Angelo di Dio, Tu che sei il mio custode, aiutami, custodiscimi e governa me, che ti fui affidato dalla Pietà Celeste. Amen.
Questa preghiera mi ha accompagnato, da quando lo ricordo, sino all’adolescenza. Tutte le sere, prima di dormire la recitavo. Me la insegnò, inventandola, mia Madre Lidia fervente cattolica (spiegato il mio doppio nome Marco Maria). In realtà la recitavo senza pensarci troppo su come fanno, immagino, tutti i bambini che sono “costretti” a fare qualche cosa di cui ignorano il significato. Ma ricordo che poi in almeno 3 occasioni la recitai io stesso, in età più adulta e tutte le volte per difendermi o per avere la sensazione di non essere solo, oppure ancora come dedica proprio a mia Madre, morta troppo presto.
Tornando alla mia adolescenza erano gli anni in cui per l’ansia di ricevere i regali della Befana, puntualmente mi veniva 40 di febbre. Il “medico condotto” che mia madre invitava a casa comunque (pur essendo certa che la febbre fosse solo da ansia ed emozione), si chiamava Eros Fabi, uomo avveniristico come il suo nome di Battesimo. Seppure già anziano, egli pretendeva da mia madre come pagamento uno yogurt che si stentava a trovare anche nei Bar. Anzi era “il bar”, quello del mio quartiere, nel quale andavo con 100 lire, per prendere il mio cono gelato, enorme. “Sor” Antonio era il “mio” barista. Con suo figlio, Giuseppe, frequentavo anche il “campetto”. Di fatto i giochi con le palle non mi sono mai piaciuti troppo, ma di certo mi piacevano le ragazzine che si accompagnavano ai miei “amichetti” più grandi e “scafati” di me. Una la ricordo bene era una amazzone bionda e si chiamava Donika, nata in Italia, ma da genitori dell’Est (si, già c’erano pensa un po’ te). Tutti le correvano appresso e io pure, ovviamente, che potevo anche guardarla dall’alto del mio sesto piano, lei al terzo a prendere il sole sul balcone. E poco sopra, un altro balcone, quello di un altro Giuseppe, a cui invidiavo una stupenda “ground plane” (è una antenna) che lui usava per trasmettere con il suo baracchino da “50W veri” e che di notte “grazie alla ionosfera” poteva parlare (si fa per dire) con misteriosi interlocutori in località come Algeri, o Addis Abeba.
Giuseppe, figlio di altro Antonio (si mi rendo conto che i nomi sono poco variegati ma sono veri) gestiva il negozio di Elettricità del quartiere. Paziente, elegante, cortese come tanti pugliesi come lui, Antonio mi sopportava quando andavo a comprare qualche pezzo di filo elettrico o un interruttore a pulsante, per i miei esperimenti elettrotecnici. E mi spiegava, faceva in modo che non mi facessi male. O almeno tentava. Di certo io ero fiero e felice quando con due pezzi di filo, una batteria, due lampadine e due contenitori dell’ovetto Kinder (quelli gialli di plastica che si aprivano) mostravo le “frecce” che avevo installato sulla mia bici. Che poi non era una bici normale ma un “chopper” col manubrio alto, la sella a strisce bianca e nera, lunga per due persone e lo schienale alto. Tre “marce”. L’avevo ricevuta dalla Befana e come sempre avevo la febbre quando la bici arrivò. Quindi la parcheggiai vicino al mio letto per tutti i giorni in cui dovetti rimanere a casa, toccandola e parlandole come fosse un essere vivente. In quel caso la febbre la ebbi per tre giorni.
Di certo me la invidiavano tutti. Cioè io speravo anche Donika, che però invece preferiva di gran lunga il “Caballero 50” di un ragazzino molto più figo di me, alto e biondo riccio, che si chiamava Pierluigi. Ma chissenefrega, pensavo io e con Giorgio, il mio amico del cuore del quale ho parlato anche qui, andavamo in bici vicino la ferrovia (non imitatemi da casa) con dei chiodi rimediati che mettevamo sui binari in attesa passasse il treno che schiacciandoli li trasformava in stupendi coltelli, quando riuscivamo a staccarli dalla rotaia. Con quelli tagliavamo delle fronde sulla riva dell’Aniene e costruivamo piccole capanne. Inutili come del resto erano inutili i coltelli/chiodo che di certo non tagliavano neanche l’erba. Erba. Si parlava di droghe, durante le riunioni Scout. Ma erano cose che davvero mi sfuggivano, non capivo molto. I più grandi ne parlavano demonizzando. Più avanti, negli anni, scopersi che Dario (il capo clan) ne faceva largo uso, quindi ne parlava con consapevolezza. Di certo non sapeva di questo Don Giuseppe, che oltre ad essere il prete della mia parrocchia, era anche il “detentore” (nella Chiesa da lui amministrata) di uno degli organi a canne più belli mai realizzati in Italia. Non per bellezza artistica ma per sonorità e grandezza. Fu li che iniziai ad innamorarmi della musica Classica, da Organo in particolare, tanto da convincere mio padre a comprarmi un “Farfisa” per iniziare a studiare la musica. La studiavo a casa mia, col prof. Piergiorgio, che talvolta mi dava lezione anche a casa sua, dove aveva un Organo Hammond e un Farfisa a tre tastiere e pedaliera completa, monumentale e immenso, oltre ad un pianoforte a mezza coda che mi affascinava meno, come oggi del resto. Il primo brano intero che suonai (e che so suonare ancora) fu uno studio per organo di Frescobaldi.
Erano gli anni del “succo di frutta” solo la domenica, che mio padre portava a casa assieme alle pastarelle comprate dal mio amico che guarda caso si chiamava Giovanni. Un ragazzone da 150 kg, con le gote rubizze, una pasticceria che ora non c’è più e che produceva paste e dolci di cui oggi ricordo bene il sapore. E talvolta mio padre metteva sopra la lavatrice in cucina (la lavatrice era una Hoover con vasca e centrifuga separate larga almeno 1,50 mt. , la potete osservare nella foto di apertura presa da Subito.it) e che permetteva di sorreggere un televisore Philips a valvole in bianco e nero che mio padre trasportava a braccia dal salotto alla cucina. Uno ne avevamo e quello si usava. Così talvolta la domenica pranzavamo guardando la TV, roba da gran signori. E mi ricordo perfettamente una trasmissione (credo una antesignana Domenica In) nella quale Pippo Baudo parlava di un apparecchio telefonico portatile che poteva addirittura comunicare, componendo un numero, con i telefoni della rete urbana nazionale che da Teti era appena diventata Sip.
Vi giuro che nomi, fatti e sensazioni sono tutti veri. Sono ricordi certi, alcuni dei quali tengo per me e che oggi mi emozionano come allora.
Già. E oggi?
Lungi da me la nostalgia, non fraintendete le mie parole. Ma oggi non mi stupisco molto del fatto che posso anche telefonare (verso la rete fissa ma anche mondiale, Algeri ed Addis Abeba compresi) con una specie di computer che ho in tasca. Non mi stupisce molto ne mi emoziona entrare in una pasticceria e comprare un dolce, cosa che più o meno posso permettermi di fare quando voglio, se evito di pensare alla glicemia. Ho una moto che se l’avessi avuta allora, Donika mi avrebbe sposato (n.d.r. me l’avrebbe data) e posso comprare chilometri di cavi, interruttori e lampadine per fare quello che mi pare. Nel mio frigorifero ci sono molti succhi di frutta che talvolta scadono intonsi e li butto via. Però non ricordo i volti e spesso neanche i nomi di tanti miei “amici” di Facebook, anche perché molti non li ho neanche mai visti. E comunque non li ricorderei, perché non ho mai avuto un rapporto vero, di scambio, personale con almeno 4500 di loro. Niente campetto, niente scout.
A casa ho tre televisori e un video proiettore. Spenti sempre, a parte un TG ogni tanto, forse qualche film e “Montalbano” perché adoro Camilleri, con il quale ho lavorato e che ho conosciuto bene.
Non mi emoziona, spesso, neanche fotografare. Anzi oggi come oggi mi impensierisce farlo (parlo di lavoro) perché so che devo scontrarmi con qualche cosa che non posso combattere: la mancanza di emozioni unita alla mancanza di cultura.
Vedete, se mi imbatto in una persona che ha avuto esperienze simili alle mie ed un excursus più o meno compatibile, ho le armi per confrontarmi con lui. Posso difendermi, posso controbattere, posso discutere ad armi pari. Poi magari avrò torto ma lo saprò e ne sarò consapevole. Se invece di fronte a me ho una persona che non si emoziona (non è una colpa, è uno stato mentale che proviene dalle esperienze avute) se è una persona che ha sempre avuto i succhi di frutta nel frigorifero (non per ricchezza, magari solo perché è più giovane di me) io non riuscirò mai a spiegarmi bene. Non credo di potere riuscire ad emozionarlo e convincerlo che quello che faccio, o dico, proviene dal mio passato e da tutto quello che ho visto, ascoltato, sudato, goduto. Quindi calmierato, vissuto. Per lui la cosa che dirò apparirà scontata o peggio senza senso.
Non sempre è una questione di età; talvolta come dicevo è questione di cultura.Per cultura non intendo le nozioni, il sapere cose. Intendo per cultura quell’attitudine che ti spinge a essere curioso, a non fossilizzarti sulle cose del momento, a guardare prima indietro e poi avanti, poco i piedi. Vedo sempre meno persone con questa attitudine. Probabilmente è per paura, forse serve a difendersi non emozionarsi, non credere in un progetto, non difendere a spada tratta (consapevolmente) una idea. Forse serve a mantenere il poco che si ha, non esporsi ma limitarsi a ricondividere su FakeBook (non ho sbagliato a scrivere) che è morto AlBano in un incidente col frullatore. Diventiamo un po’ tutti Salvinisti, Grillini, Renziani o Berlusconiani non già per idee nostre, formate e se il Cielo vuole anche modificabili, ma per il compagno di banco che abbiamo vicino, il quale a sua volta ne ha un altro e via di seguito.
Ieri sera guardavo un video su YouTube. Un FlashMob di una orchestra sinfonica e alla fine piangevo. Piangevo come un vitello proprio eh! Perché pensavo al gesto, consapevole, di fior fiore di professionisti che si mettono in gioco per fare una cosa che in primis li ha divertiti, potendo poi anche uscire dallo smoking quotidiano per fare una cosa utile e senz’altro meravigliosa. Bastava guardare, in quel video, le persone con la bocca aperta, i bambini che applaudivano come forsennati. Ci sono tante storie di straordinaria follia che vedo in giro. Ma sono quelle con meno “mi piace” nei social, quelle che forse hanno visibilità e rilevo per 12 secondi e poi si passa a inveire contro lo Stato che regala (in una notizia finta) gli smartphones agli extra comunitari.
Io ho memoria delle cose che mi hanno colpito ed emozionato e quelle che ho scritto qui sono davvero una minima parte. Ho avuto una vita ricca di eventi ed avvenimenti, bellissimi e tragici, ho viaggiato per lavoro e diporto in larga parte del mondo, vissuto storie bellissime e attimi di solitudine da suicidio. Ma di certo li ricordo tutti, con nomi e cognomi, ricordo i momenti e il groppo alla gola, lo stomaco stretto, la febbre da ansia.
Ma questi miei “ricordi ricordati”, sinceramente, si fermano a molti anni fa. Eppure piango per un flash mob, come un deficiente, davanti ad un pc: un po’ di cuore e la capacità di emozionarmi credo di possederla ancora.
Oggi, riguardo la mia vita di oggi, a parte pochissimi avvenimenti che conto sulle dita di una mano, credo che non avrò molti ricordi da conservare per il futuro.
Gesù mio, fammi buono. Ma fallo davvero.