Warning: Undefined array key "sfsi_plus_mastodonIcon_order" in /home/mhd-01/www.marcodottavi.com/htdocs/wp-content/plugins/ultimate-social-media-plus/libs/sfsi_widget.php on line 1748
Ci sono alcune cose che mi accadono e che diventano la famosa goccia nel famoso vaso. E questa volta la goccia si è manifestata rendendomi protagonista per la seconda volta in un anno, di una scena alla cassa di un discount che più o meno si svolge così: Coppia di ragazzi giovani. Si rigirano tra le mani un panettone discutendo sul fatto che magari non comprarlo sarebbe stato meglio. Meglio non spendere soldi inutili. Ne discutono con tenerezza, a voce bassa. €2,99. Lo lasciano alla cassa. Io lo prendo, il cassiere mi conosce, li inseguo e glielo do, biascicando una mezza frase tipo “avete dimenticato questo”, e torno dentro. Spero non si siano offesi, lo spero davvero, prego che non si siano offesi, ma non potevo non farlo: non è solo una goccia per me, è un nubifragio.
E ora veniamo al vaso.
Riassumerò le cose solide e positive che hanno pervaso il mio 2014: mio nipote Flavio, che cresce bene grazie a splendidi genitori. Rita, la mia compagna di sempre che mi sopporta ancora anche se in contumacia e Dara, (la nostra cagnetta) che mi adora. Luca, il mio socio puntiglioso e carismatico che c’è sempre, ma mai al telefono. Punto.
Ora invece vi dirò cosa vedo nel restante mondo di merda che mi circonda. Potrei dividere fondamentalmente in due macro categorie: le cose che non cambiano mai e le cose che cambiano in peggio.
Qualcuno lo sa già, gestisco assieme a mio fratello anche una azienda che non si occupa di fotografia. Quest’anno, since 1992, abbiamo mandato a casa otto persone che con estrema probabilità, stante età/competenza, rimarranno disoccupate a lungo. Al primo licenziamento non ho dormito una notte. All’ottavo non ho dormito per tre notti e ho pianto, a lungo. Guardavo la mia vita, la mia casa. Pensavo che con molta probabilità dovrò rinunciarvi molto presto: alla casa, non alla vita. Così come ho già rinunciato a tante altre cose prima di arrivare alla decisione di mandare a casa otto padri di famiglia. Il commercialista ha detto: “…è troppo tardi, dovevate farlo molto prima, prima di reinvestire tutto quello che avevate per salvare il non salvabile.” Ecco, questa frase mi ha fatto venire in mente immediatamente “mors tua vita mea“. Invece no. E’ “mors tua, mors mea“. Muori anche tu dentro, perdi una fetta di vita che ti sembrava “consolidata”, inamovibile, immanente.
Sono anche Socio (anche se ora solo affettivamente) di una azienda che sento mia anche se di fatto non lo è, una attività che si occupa più strettamente di fotografia e che riguarda la luce: un “service” cioè una società che noleggia materiale per illuminazione per il teatro, la fotografia e il cinema. Il problema dell’unico socio rimasto – che è mio amico, fratello, più che fratello – il suo problema, il suo cruccio è non avere i soldi per chiudere. Ed è una azienda del 1982 che, nata sotto i migliori auspici, ha segnato giorni incredibili nelle nostre vite. Le nostre vite.
Poi ho l’attività da fotografo. La svolgo da sempre, prima come libero professionista poi con il mio studio, ora con lo studio associato. In regola, come spesso mi rammenta Equitalia, da 28 anni; più o meno la prima foto la vendetti quando avevo 20 anni. Tutto ciò che è associato alla parola “fotografia” credo di averlo fatto. Come galoppino, assistente, semplice osservatore, appassionato. Ho realizzato mostre, libri. Ho scattato per editoriali (veri, calmierati, stampati e pubblicati, non solo postati su Facebook), venduto centinaia e centinaia di foto alle riviste di eros o glamour degli anni 90 e questo sino al 2007. E pubblicità: dai costumi da bagno ai grandi alberghi passando per i gioielli e financo mutande da uomo. Fotografie di reportage per i grandi (ex grandi) tour operator. Foto per “me”. Magazine, giornali, quotidiani, inserti speciali. Copertine di libri, calendari, copertine di dischi e cd. Fotografia di scena, soprattutto danza. Ho scritto un libro sull’illuminazione in fotografia e insegnato in accademie, scuole, corsi voluti da lungimiranti Regioni e della durata di anni. Da poco più di uno, con Luca, che ha un background ancora più potente e fascinoso del mio, abbiamo realizzato come associati, fotografie per le quali riceviamo commenti che passano da benevoli a entusiastici: “siete magnifici“, “fate dei lavori meravigliosi“. Ecco, LAVORI. Questo dovrebbero essere. Ti è utile quello che facciamo? Ci chiami, lo realizziamo, ci paghi. E invece no, non più. Non funziona più così. Una delle aziende per le quali abbiamo lavorato per tre anni consecutivi ci ha detto “il cugino di una amica che ha iniziato ora, ma è tanto bravo, ci fa risparmiare 900 euro sul totale, grazie di tutto.” Oppure molto semplicemente: “bravi, bravi, ma io ora ho il contatto con un fotografo bravissimo che stipendiato da altri – si legga, per puro esempio, impiegato statale – si accontenta di poco, anche nulla, e anche il nulla al nero, si diverte.” Ma tanto…a chi importa più della fotografia? Chi è che ancora ne percepisce la giustezza? Chi ha, oggi, voglia di stare a guardare una immagine per più di tre secondi? Mai più sentito (ed è successo in passato): “non ci serve più il tuo lavoro, abbiamo scelto un altro che corrisponde di più alle nostre esigenze attuali.” Ineccepibile. Ma non oggi non più.
Ok. La fotografia mi ha accompagnato per tutta la mia vita. La MIA vita.
A questo punto mi chiedo: che ci sto a fare? Badate bene non penso al suicidio, sto solo considerando seriamente la mia posizione nei confronti di questo viaggio. Tutto quello che so fare bene, non serve praticamente più a nessuno. Inoltre, mercè la situazione terrificante dei mercati, parlo della crisi economica, sono più povero e più stanco e non sono disposto a sopportare esternazioni qualunquiste, banali, razziste e superficiali che spesso leggo nei social.
Ma quali social? In Italia sono “vetrine”. Ti faccio vedere quanto sono figo, quanto sono bravo. E il “Bravo” non viene dagli altri, ma da se stessi. La democrazia dei social, del web, della globalizzazione, sono più pericolosi della dittatura. Quest’ultima fa di certo danni, ma l’uso sbagliato della democrazia e della mancanza (o il mancato rispetto) delle regole, molto peggio. E il vero problema è l’ignoranza basale, quella metabolizzata. Quella che spinge il coatto demente testadicazzo davanti a me in automobile a buttare fuori dal finestrino le sue cicche con la convinzione che “li fuori non è mio”. Sono abbastanza certo che quel tipo li, il testadicazzo, potrebbe diventare uno dei tanti fotografi social e trovare pure qualcuno che gli dice che è bravo. Ma di fatto, non lo sarà mai perché non può esserlo, non sarà mai bravo in nulla se non a farsi i cazzi suoi. Il motivo è che è ignorante, tutto qui. Solo che il “social” gli infonde una sicurezza: quella di esistere. Io ho un account, quindi esisto. E siccome esisto dico la mia. Poco importa se quello che dico e che penso, essendo ignorante, sono certo sia una novità. Di certo non lo è affatto, ma ci sarà sempre il “vicino di banco social” che mi mette un bel like. E questo consolida il mio status: “sono bravo e figo, e innovatore”.
E così troioni ambulanti diventano “modelle che lavorano presso modella”, e iniziano a parlare male delle loro colleghe “modelle che lavorano presso artista”. Poi ecco i fotografi che “lavorano presso se stessi” – ovvio – e che ancor più ovviamente pubblicano editoriali dei troioni stessi senza sapere neanche cosa siano gli editoriali (ma sanno che i troioni sono “modella presso modella”). O postano con copyright, dichiarazione di intenti e firma, foto rubate a qualche workshop. E così di seguito a tutti i livelli, per tantissimi mestieri e professioni: pensate anche solo ai “musicisti DJ” che “suonano” le “compilation”. In fotografia tutto questo si nota di più perché “si appare” ma il problema è molto vasto. Ultimamente Instagram ha cancellato milioni di account finti, servivano solo per avere like e apparire di più. E anche Facebook sta “cercando” i profili personali non usati come tali. Per cui “Juliette ‘nameraviglia AstrodelCiel Model” si incazza perché FB le chiede di mettere il suo vero nome o trasformare il profilo personale in pagina (che ha già e si intitola “Juliette ‘nameraviglia AstrodelCiel Official Page” – personaggio pubblico). E giù bestemmie sulla grave ingiustizia patita. A me scrivono su tre social diversi le stesse persone con tre “nickname” diversi. La trinità è appannaggio di tutti, oggi.
L’assoluta mancanza di cultura poi, fa anche si che ci si incazzi da morire se le proprie esternazioni artistiche non vengono adeguatamente apprezzate. E così giù altri bestemmioni e minacce di partire per l’Australia (chissà perché poi) dove li si sarà certamente apprezzati. Ultimamente una modellina del social massimo, ha scritto una pappardella su una foto che ritraeva se stessa illuminata da un videoproiettore che le tatuava addosso dei fiori. Uno sproloquio sul fotografo figo che aveva inventato questa novità assoluta, che gli altri erano invidiosi e dovevano rimanere un passo indietro. Ovviamente la ragazza non ha idea di cosa sia un frontifondografo, e di quante volte sia stato usato da fine ‘800 a oggi ad esempio da Klauss Zaugg. Ma non fa nulla. Nessuno si è peritato di dirglielo e anzi, siccome è una modellina carina e spesso smutandata (si legga: glamour), tutti a fare complimenti ed assentire. Ovviamente neanche io ho scritto nulla, sono convinto che è inutile e anzi dannoso; si creano le condizioni per scatenare le ire dei fans di questo o quello, e tutto nella sede divenuta meno opportuna che di fatto però nasceva proprio per questo: per socializzare e quindi scambiare opinioni, non apparire per avere la certezza di esistere. Inoltre qualunque discorso “social” anche se articolato e motivato, termina sempre con tutti nelle medesime posizioni iniziali, quando va bene.
Per me, anziano demotivato e stanco, è una lotta impari. Oggi, ora, mentre scrivo, il TG parla tra le altre pessime notizie, di un traghetto incendiato, una nave affondata, e un aereo scomparso nel nulla. Ma nella mia home page di FB la cosa più “social” è una di culo su un divano, foto postata 8 minuti fa, con 35 mi piace e un commento: “meravigliosa composizione”.
Quando la segnaleranno e la banneranno si griderà all’ingiustizia dei maledetti invidiosi, scrivendo stronzate tipo “dovrebbero bannare anche il David di Michelangelo, allora”.
Io non capisco neanche tanto chi dice che occorre rinnovarsi. Su cosa? Cioè, dico: una fotografia è una fotografia. Niente altro. La giovane fotografa zinnona che è stata di moda per almeno 12 mesi, scatta foto che si facevano nel 1980. E quindi? Dove si è rinnovata? Su cosa? Perché ha avuto inenarrabile eco per 12 mesi tanto da essere chiamata a spiegare il perché del suo successo presso austere convention? E quel porcone sifilitico di…come si chiama…neanche me lo ricordo più, quello che scatta col flash in macchina foto di merda, cosa ha inventato? Le “sue” foto erano i calendari Playmen del 1970, e prima ancora le foto “rubate” dei paparazzi in via Veneto a Roma. Ma quelle erano fatte meglio. E quindi? Ah ecco! Facciamo le finte polaroid. E così gente furba costruisce “a mano” macchine folding tutte colorate che al modico prezzo di 3000 euro diventano un “must” da usare per scattare istantanee di medio formato a 20 euro l’una. Ovviamente mai a fuoco (Impossible, appunto…), vista anche la qualità improbabile della costruzione della macchina e d’altronde, sarebbe banale comprare un banco ottico vero e funzionale che su eBay oramai si trova a 200 euro, magari per farle meglio ‘ste cazzo di istantanee, NON Polaroid. Quella vera è fallita.
E per correre dietro a tutto questo, ecco padri fondatori della fotografia come Gastel che postano (con inserzioni a pagamento) fotografie degli anni ’80 ricevendo 300 like, 40 meno della ennesima foto della ennesima “modella presso modella” seduta a gambe aperte con pantalone slacciato su anonima sedia con la finestra in alluminio anodizzato dietro. O come Galimberti che la polaroid non ha mai smesso di usarla meravigliosamente bene e che di like ne riceve 20 quando va bene. E quindi, io a che servo? Non ho creato la fotografia di moda in Italia come ha fatto Gastel, non uso più o quasi le anticaglie che ornano i miei scaffali, e realizzo foto, ma pensa te, tutte diverse.
Pensa te.
E provo pure a gestirne gli effetti, la luce. Provo, pensa te, a fare foto che in qualche modo servano ai clienti che le commissionano e se sono per me, che servano a me. Che cazzata. Provate ad aprire (per chi lo ha) la pagina Instagram che riassume le miniature di questo o quel fotografo. Quelli ignoranti si riconoscono subito. Le miniature, impietosamente affiancate l’una all’altra, mostreranno praticamente la stessa foto con modelle diverse. Mani nei capelli, mano sulla gnocca, mano sul seno. E via di seguito, serie dopo serie. E, di grazia, a cosa servono? A cosa servono le centinaia di foto scattate contro un fondale tipo “lookbook” se non sono un “lookbook”? A fare numero! “Io ne ho di più. Le modelle non le pago mai io, si accalcano dietro la mia porta.” Ed è vero: le “modelle presso modella” sono le più avide cacciatrici di fotografi qualunque.
Io vorrei davvero vedere quanti di questi appassionati fotografi rimarrebbero tanto appassionati se Facebook scomparisse. Ricordo con gioia nottate passate con gli appassionati FOTOAMATORI del dopolavoro ferroviario a sviluppare negativi e stampare. E le foto, al massimo, venivano esposte al circolo. Ma nessuno di loro smetteva di farle se non quando finivano i soldi per le pellicole, la carta o i chimici. Ecco, i dodicimiliardi di PH di Facebook, se non ci fosse più Facebook, insisterebbero con quella che loro stessi definiscono “ragione di vita”, con la loro stramaledetta “buona luce”? No! Non apparire, non avere login e password, non avere milioni di foto postate significherebbe non esistere.
Per loro.
Non al denaro, non all’amore né al cielo.
“…era quell’universo di invidia e di insoddisfazione che noi tutti ci costruiamo, finendo per rimanervi indissolubilmente incastrati e che ci spinge a fare di più per avere ciò che gli altri hanno e noi pensiamo di non avere…” (cit. FdA con F.Pivano)